Storia
Il palazzo fu eretto tra il 1562 e il 1565 da Giovanni Ponzello per Baldassarre Lomellino. In breve passò alla Famiglia Salvago. Rubens, nel 1587, lo segnala infatti di proprietà di Enrico Salvago. Dopo il 1770 passò agli Spinola quindi ai Serra che lo tennero sino al 1917 quando divenne di proprietà della famiglia Campanella. Il celeberrimo Salone del Sole, citato anche nell’Encyclopédie, scomparve con i bombardamenti del 1942.
Nel 1765 Paolo Girolamo Franzone aprì al pubblico la sua biblioteca situata nelle sale dell’appartamento inferiore.
Negli anni 70 del XVIII secolo il palazzo passò agli Spinola, in particolare a quel Cristoforo Spinola, ambasciatore a Parigi che, invaghitosi del gusto della capitale francese, avviò un intenso programma di rinnovamento, ad opera di Charles de Wailly, architetto del re di Francia.
«Il dotto francese trovò qui già inteso alle riforme del palazzo il nostro Tagliafichi. […] Per loro dunque si trasformò nell’interno l’aspetto dell’edifizio.
[…] Le stanze del primo palco si tengon cari parecchi affreschi d’Andrea Semino, argomenti di battaglie romane, scampati ai disegni dell’architetto. Al quale non crederò che increscesse poco il distruggerne alcuni, dacchè m’accorgo che quanti potè trasse in salvo, o trasportò in altro luogo. […] Sfolgora d’oro la regal Sala, e col ricco dei fregi, col brio dei dipinti, col riflettersi in ispecchi e cristalli, e col vivo de’ lapislazzuli, al primo entrare le soglie conviene al tutto che vi soffermi il passo e v’abbagli la vista»
Le Guide
Carlo Giuseppe Ratti, 1780
Il palazzo si trova al civico 12 di Via Garibaldi, le parole del Ratti, ci guidano attraverso ambienti profondamente cambianti durante il corso dei secoli, in parte per l’effimero cambiamento di gusto e, in parte, per un bombardamento subito dal palazzo, durante il secondo conflitto mondiale che ha completamente distrutto la maggior parte del secondo piano nobile.
«Oltre la sua buona struttura meritan lode gli ornamenti in marmo della porta sulla quale le due figue dei mostri marini, e i due putti son lavoro di Taddeo Carlone. Al primo piano sono due stanze dipinte dai fratelli Andrea, ed Ottavio Semini. La sala del piano superiore, ch’era dipinta dal Bergamasco fu atterrata in occasione della nuova fabbrica: e in vece vi ha dipinta una medaglia Monsieur Calet Pittor Francese. Questa sala è ricca e magnifica per istucchi messi ad oro, ed altri ornamenti. L’antisala conserva ancora alcune storiette state trasportate d’Andrea Semini. Una stanza ancor d’antico pur si conserva dipinta dal Bergamasco, e vi sono storie tratte dall’Eneide di Virgilio. Una seconda sala è architettata da Andrea Tagliafico, ma la medaglia della volta mostrante lo sposalizio di Giunone è opera di Giuseppe Galeotti»
Anonimo, 1818
L’Anonimo Genovese lo descrive in modo piuttosto conciso: «Egli è d’una buona struttura. Al primo piano ha due stanze dipinte dai fratelli Andrea ed Ottavio Semini, La sala del piano superiore, ch’ era dipinta dal Bergamasco fu atterrata in occasione della nuova fabbrica, e in vece vi ha dipinta una medaglia M. Calet pittore francese. Questa sala è ricca, e magnifica per istucchi messi ad oro, ed altri ornamenti. Ammirabile poi sopra tutto, e l’unica che sia in Genova, è la gran galleria, guernita di grandi specchi, pitture nel volto, e tutta ricoperta del più puro fulgentissimo oro. La vista non regge al contemplarne la sfarzosa magnificenza, e l’occhio ne rimane abbarbagliato. L’antisala conserva ancora alcune storiette state trasportate d’Andrea Semino. Una stanza ancor d’antico pur si conserva dipinta dal Bergamasco, e vi sono Storie tratte dall’Eneide di Virgilio. Una seconda sala è architettata da Andrea Tagliafico, ma la medaglia della volta mostrante lo sposalizio di Giunone è opera di Giuseppe Galeotti»
Federico Alizeri, 1846
Alizeri nel Manuale del 1846, a proposito di questo palazzo, considerato uno dei più particolari di Strada Nuova, afferma: «Questo palazzo fu in principio architettato dall’Alessi […]. Il portico è decorato all’esterno con due putti che sorreggono ghirlande di fiori, scolpiti da Taddeo Carlone. Il vestibolo è costrutto in forma ottagona, con una leggiadra distribuzione di pilastri d’ordine dorico, coronati d’un architrave sopra cui posa una volta circolare; tutto questo è lavoro dell’architetto Andrea Tagliafico.
[…] In due stanze del primo piano sono alcuni affreschi dei fratelli Ottavio ed Andrea Semini, rappresentanti diversi fatti di storia romana.
L’antisala è decorata d’un affresco d’ Andrea Semino, trasportato da un’altra stanza ne’ moderni ristori.
[…] La magnifica sala fu eseguita dal [...] Tagliafico dietro il disegno del Wally architetto francese»
Giovanni Battista Spotorno
Spotorno scrive: «Questo palazzo è meritevole di osservazione sia pel bel disegno concepito dal celebre Galeazzo Alessi, sia per le belle modificazioni che internamente vi fece l’architetto Andrea Tagliafico, e sia [...] per lo sfarzo degli ornamenti. La sua splendidissima sala, resasi ormai famosa famosa non ha pari in Genova»
È attualmente noto come Palazzo Campanella, situato al numero 12 di Via Garibaldi.
Fu uno dei primi palazzi ad essere costruito per volere della famiglia Salvago che, per le decorazioni, si affidò ai fratelli Semino, al Bergamasco e al Cambiaso. Nonostante i cambi di proprietà il palazzo, esternamente, ha subito minime variazioni.
Bibliografia Guide
- Alizeri Federico, (Attribuito a) Manuale del forestiere per la città di Genova, Genova, 1846 pag. 318-319
- Alizeri Federico, Guida illustrativa del cittadino e del forastiero per la città di Genova e sue adiacenze, Bologna, Forni Editore, 1972 pag. 183-184
- Poleggi Ennio e Poleggi Fiorella (Presentazione, ricerca iconografica e note a cura di), Descrizione della città di Genova da un anonimo del 1818, Genova, Sagep, 1969 pag. 152
- Ratti Carlo Giuseppe, Istruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova in pittura scultura et architettura autore Carlo Giuseppe Ratti pittor genovese, Genova, Ivone Gravier, 1780, pag. 271-272
- Spotorno Giovanni Battista, Descrizione di Genova e del Genovesato, Vol. III, Genova, Ferrando, 1846, pag. 309